I nuovi “trend” del mondo del lavoro e il legame con la ricerca

Si diffondono a macchia d’olio sul Web, come una sorta di nuovo contagio. Sono ovunque, sulle testate più autorevoli, sui magazine online e offline, rimbalzano sui social network, da Linkedin a Facebook, passando per gli hashtag su Instagram. Stiamo parlando dei nuovi trend che, secondo gli esperti in materia, stanno letteralmente ridisegnando il mondo del lavoro.

Hanno nomi esotici, inglesismi che incutono timore nei meno giovani e che di fatto li escludono a priori da questi fenomeni con i quali invece giovani e meno giovani devono imparare a convivere in un futuro molto, molto prossimo.

I fenomeni di massa che ridisegnano il mondo del lavoro

Non è più una novità: è ormai più di un anno che sentiamo parlare di Great Resignation e Quiet quitting. È invece relativamente più recente il concetto di “bare minimum”, per quanto anch’esso faccia riferimento al fenomeno del quiet quitting. Per chi se li fosse persi, ecco un veloce ripasso:

  • Great Resignation: letteralmente “Grandi Dimissioni”, l’espressione si riferisce alla tendenza, sempre più marcata soprattutto in alcuni settori, a lasciare il proprio lavoro, cercando un’occupazione più in linea con i propri obiettivi di vita e di carriera;
  • Quiet quitting: tradotto alla lettera sarebbe “abbandono silenzioso” ed è un’altra faccia, forse meno coraggiosa, della Great Resignation. Il dipendente che fa proprio il concetto di quiet quitting non abbandona letteralmente il suo posto di lavoro, ma sceglie di “eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro: rifiuto di straordinari, dunque, e di partecipare a nuovi progetti aziendali.” (Treccani).
  • bare minimum: letteralmente “minimo indispensabile”, è un concetto strettamente legato al quiet quitting e si traduce appunto nella scelta di fare solo quello per cui si è pagati, senza il minimo sforzo aggiuntivo.

I numeri e le motivazioni dei fenomeni

È difficile fare una stima precisa del numero di dipendenti che hanno optato per il quiet quitting, mentre i numeri delle grandi dimissioni sono pubblici e rendono evidente come mai si parli di vero e proprio trend. Come riportato dalla testata del sindacato infermieristico NURSIND (categoria lavorativa che più di molte altre è stata interessata dal fenomeno) “Secondo i dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ad agosto 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro. Dalla primavera 2021 il valore medio è stato di 4 milioni circa. Nel Regno Unito la crisi del personale si sta aggravando: a ottobre 2021 un numero considerevole di imprese ha affermato che la mancanza di personale sta compromettendo la loro capacità di operare. Il boom delle dimissioni è una realtà anche per l’Italia. Nei primi sei mesi del 2022 le cessazioni sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali: contratti stagionali (+64%), contratti intermittenti (+57%), contratti in apprendistato (+34%), contratti a tempo determinato (+33%), contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%). Ma quello che salta all’occhio è che tra le ragioni di fine del contratto le dimissioni hanno un peso rilevante: si parla infatti di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021. Analizzando poi solo i tempi indeterminati la crescita rispetto al 2021 è del 22%.”

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Cosa ha innescato questa spirale di cambiamento e di allontanamento, fisico e mentale, dal posto di lavoro? Cronologicamente si ricercano le radici del fenomeno nell’inizio della pandemia da Covid-19, quindi nel 2020. Lo stravolgimento dovuto all’emergenza sanitaria, che ha investito anche il mondo del lavoro e del quale abbiamo parlato ampiamente anche sul nostro blog, avrebbe innescato a sua volta un cambiamento culturale e avrebbe rimesso in discussione motivazioni e priorità dei lavoratori. Secondo IPSOA, informazione professionale quotidiana su fisco, lavoro e pensioni, bilancio, gestione d'impresa e finanziamenti, la pandemia ha accelerato tre grandi processi che hanno finito per rimodellare completamente l’esperienza lavorativa e le sue prospettive future:

  1. lavoro a distanza e riunioni virtuali, che si sono imposti come necessità e che, sul lungo periodo, hanno mostrato il loro potenziale integrandosi con l’esperienza aziendale classica;
  2. il passaggio alle transazioni digitali;
  3. l'automazione e l'Intelligenza Artificiale, tecnologie che erano già in fase di sviluppo ma che hanno avuto un fortissimo impulso come conseguenza dell’emergenza sanitaria.

Queste nuove opportunità, accolte con sospetto all’inizio della pandemia, hanno rimesso in discussione l’intera esperienza lavorativa ed il suo rapporto con la vita privata. Lo ha evidenziato anche Il Sole 24 Ore, che descrive così il cambiamento culturale in atto: “La voglia di lavoro ibrido la fa da padrone. La cultura gioca un ruolo fondamentale. Sia in termini di condivisioni di valori e principi, sia in termini di organizzazione del lavoro, con la modalità ibrida a farla da padrone. Se la professione, per sua natura, lo consente, le persone non sono disposte a rinunciare a una gestione più flessibile del proprio tempo. Poter scegliere dove lavorare – da casa, dagli uffici aziendali o da altrove – sembra essere ormai diventata la nuova normalità; se non per tutti i giorni della settimana, almeno in parte. Allo stesso modo, per le persone conta sempre di più poter lavorare in un ambiente inclusivo, di cui si condividono i valori, che sia anche piacevole e appagante e dove sentirsi riconosciuti per il proprio contributo.”

La sociologa Francesca Coin, nel suo saggio di quest’anno edito da Einaudi, che si intitola proprio Le grandi dimissioni, il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, indaga ancora più a fondo le motivazioni che spingono alle dimissioni o al cosiddetto tirare i remi in barca: il «nuovo rifiuto del lavoro» va letto come un sintomo, più precisamente «il sintomo della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento» sul piano individuale e che fosse lo strumento principale per «salvare il mondo dalla fame e dalla povertà» sul piano sovra-individuale. Questo sistema è rotto, scrive Coin, e «chi lascia il lavoro non lo fa perché può permetterselo, lo fa per sopravvivere, lo fa perché non ce la fa più».

Cosa possono fare le aziende

Davanti a questo fenomeno di disaffezione nei confronti del lavoro, le aziende non possono rimanere inermi. A quanto pare, infatti, non si tratta solo di una moda, i numeri parlano da soli. Ci sono diverse azioni che le imprese possono intraprendere per arginare il fenomeno dell’abbandono, fisico o anche solo mentale, del proprio ruolo in azienda. Ne vediamo alcune, che andrebbero ovviamente approfondite singolarmente, ma che qui ci limitiamo a tratteggiare per inquadrare le possibili soluzioni:

  • abbandonare l’idea che a motivare i dipendenti siano solo i compensi o gli obiettivi di carriera ed entrare nell’ottica che al lavoratore bisogna comunicare un senso di scopo, una visione. Il primo passo per l’azienda, quindi, è chiarire la propria vision e la propria mission, in modo da poterle condividere con chiarezza con il team, includendolo e facendolo identificare in un progetto più grande;

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  • gestire e trattenere i talenti: ci riferiamo ovviamente alla formazione e al mentoring interni all’impresa, fondamentali per non farsi scappare (ci si passi il termine) lavoratori che, a seconda delle necessità, possono essere riqualificati e ricollocati in azienda;
  • rendere più flessibile il modello di lavoro, sia a livello di luogo fisico in cui si svolge l’attività che a livello di modalità di lavoro.

Il ruolo degli istituti di ricerca

Nella ricerca di una soluzione ai fenomeni della Great Resignation, del quiet quitting e del concetto di bare minimum, gli istituti di ricerca hanno un ruolo fondamentale, ma spesso sottovalutato. Ci sono due parole chiave che avrebbero potuto fare la differenza nel momento in cui i fenomeni cominciavano a prendere piede, contribuendo di fatto ad arginarli:

  1. ascolto
  2. analisi.

Lo conferma l’articolo di IPSOA sopra citato: “la maggior parte delle aziende dispone di molti dati sui propri talenti, ma vengono utilizzati in modo efficace per migliorare le prestazioni? Non sempre. L'analisi delle persone può aiutare le organizzazioni a separare il segnale dal rumore, ad esempio capendo se una determinata azienda ha un problema di abbandono del posto di lavoro e, in caso affermativo, se si tratta di determinate famiglie di lavoro, sedi o tipi specifici di dipendenti. Gli ingredienti per il successo della people analytics rientrano generalmente in tre grandi categorie: dati e gestione dei profili, capacità di analisi e modelli operativi.”

Le aziende che non vogliono farsi sfuggire talenti e che vogliono migliorare il clima nell’ambiente di lavoro dovrebbero quindi prendere in considerazione l’idea di investire in una rilevazione del clima aziendale. Un altro strumento che potrebbe far emergere criticità e punti di forza di un’impresa è il focus group, la cui peculiarità è la capacità di andare a fondo sui temi di discussione per raggiungere obiettivi conoscitivi molto più approfonditi di quelli ottenibili con le tecniche quantitative.


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